5. Guerra e pace.

Guerra e pace.
Di notte c’era Pippo a terrorizzare i grandi e noi con loro, di giorno i bombardieri  ad affascinarmi, una volta un sibilo vicino (una scheggia?) ad inorgoglirmi; nei campi  raccoglievamo bossoli di mitragliatrice aerea. Mio padre girava col camion e spesso non c’era (era allora che dormivo al pianterreno?);  i tedeschi nella vicina Bassano avevano impiccato non so quanti partigiani; al paese si diceva che ricercavano un uomo alto, magro; mio padre era alto, magro. Mia madre era quasi sempre spaventata e ora aveva un figlio di pochi mesi: su tutti i pannolini* e fasce aveva ricamato una “S”: dopo maschio  femmina maschio doveva essere  Silvana e così fu Sergio. E anche i tre cugini erano divenuti quattro. Ora i tedeschi fuggivano, si nascondevano le biciclette,  un ragazzino di loro – pistola in mano – ne pretendeva una: non si poteva dargli quel capitale, nemmeno per la vita, ma poi se ne andò e restammo con bici e vita. Si ascoltava ancora guardinghi Radio Londra, ci parve di capire che gli  alleati erano a Piacenza: sul tardi udimmo un gran colpo; mio padre ci fece stendere tutti a terra, mia madre terrorizzata voleva uscire ma fu stesa con la forza. Poco dopo un altro boato e un altro: ne contammo nove, poi silenzio; attesa, silenzio; ci trasferimmo velocemente nel rifugio scavato presso la casa dei Scaraba (la famiglia del fratello di mio nonno), appena al di là della strada e aspettammo, grandi e piccoli svegli e tesi. Gli uomini andavano e venivano; prima dell’alba entrò qualcuno annunciandoci che erano arrivati gli “americani”: non erano a Piacenza, ma a Vicenza. Uscimmo, tornammo nella casa dei nonni, guardinghi e allegri; il primo “americano” che ho visto disse, in qualche modo, di essere polacco e  cattolico e mostrava  corona e santini; nella cucina c’era un Sacro Cuore con un lumino elettrico sempre acceso. Poi ne arrivarono altri, molti altri; ce n’erano ovunque, bivaccavano sulla strada, nell’aia, nel portico; scambiavano il loro scatolame con patate, cipolle e altri prodotti dell’orto che nel muro di cinta aveva ora una larga breccia; schegge metalliche erano conficcate nel portico, ma mamma non era uscita; usarono le nostre pentole più grandi per cucinare, bruciando le loro scatole cerate; distribuirono sigarette ai grandi, cioccolata ai piccoli; qualcuno provava goffamente ad andare in bicicletta. Le campane suonarono; andammo in piazza: eravamo  euforici attorno a due mitragliatrici (contraeree da 20, disse mio padre), al carro armato abbandonato. C’era gente, americani a piedi e sulle jeep, tanti; arrivò qualcuno, gridò qualcosa e corsero via: dei tedeschi erano stati visti in qualche posto. Noi tornammo a casa, mio padre mi mostrò una pistola e seppi che l’aveva presa a un autiere tedesco, nella piazza del paese, fingendosi armato e minacciandolo con le dita in tasca: l’incoscienza non era solo dei bimbi, in casa nostra, era lui che cercavano.
Qualche anno prima scriveva “vinceremo”, qualche giorno prima aveva fatto quella pazzia: senza mai pensare di trarne vantaggio, solo seguendo l’ impulso del momento come quando anni prima aveva salvato un uomo dalla folgorazione o aiutato mesi dopo la moglie di un “repubblichino”:  lei ci regalò un grazioso cagnolino, la nostra “Boba”.  Volli provare la pistola: me la dette, pesava e non riuscii a premere il grilletto; per anni pensai che non ero abbastanza forte, non che aveva messo la sicura.
Qualche tempo dopo tornammo a Vicenza.
La Boba al chiuso era un disastro; fu riportata dai nonni paterni, ma spesso andava a trovare gli altri, come facevamo noi.
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* I pannolini di tela non si gettavano ma venivano lavati, asciugati, riutilizzati e conservati per altri figli. I neonati erano stretti in fasce.
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